Parola e immagine nei disturbi alimentari – prima parte

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Animare l’inanimato o inanimare l’animato: qual è il ruolo della parola e dell’immagine nei disturbi alimentari’

La preoccupazione per la propria immagine, è questa la fatale immaturità dell’uomo. È così difficile essere indifferenti alla propria immagine. Una tale indifferenza è al di sopra delle forze umane. L’uomo ci arriva solo dopo la morte. E neanche subito. Solo molto tempo dopo la morte.

L’immortalità, Milan Kundera

I “mattoni “della nostra identità: la parola e l’immagine

Nasciamo in un mondo di immagini, la vista è ciò che ci permette di stabilire il primo contatto con la realtà e di entrare in rapporto con ciò che ci circonda e soprattutto con coloro i quali abbiamo bisogno di stabilire una relazione e dalla cui attenzione e responsività, attribuita proprio da quello sguardo posato su di noi, la nostra esistenza viene a dipendere.

Apriamo gli occhi e davanti a noi abbiamo un’immagine, quella della madre, il primo specchio in cui vediamo riflessi emozioni e sentimenti, di cui non abbiamo ancora consapevolezza. Il neonato manca di propriocezione e di identità ma quella reciprocità, tipica di un rapporto bidirezionale e suggellata, sin dalla permanenza nel grembo materno, dal cordone ombelicale, viene a replicarsi in una relazione fondata su un gioco di sguardi e di risposte emotive. Bastano pochi minuti dopo la nascita a far sì che l’essere umano mostri una preferenza per il viso dei suoi simili piuttosto che per altri stimoli visivi, i nostri occhi e la nostra testa si orientano subito verso l’altro. “Questo rappresenta una risultanza adattiva della nostra storia evolutiva, un riflesso, controllato dalle aree subcorticali del cervello, che serve a orientare i neonati verso i loro caregiver e a promuovere le interazioni sociali”. 

Accanto alla vista, senso che ci permette di aprirci al mondo e di “toccarlo” a distanza, un altro canale di comunicazione con l’ambiente esterno è l’udito. L’uomo sente la voce della figura parentale, è esposto immediatamente alla lingua utilizzata da chi lo circonda e all’universo di simboli della cultura di cui viene ad essere parte. La parola è come un indice puntato sul bambino, i significati stabiliti dal contesto sociale, sono dei veri e propri marchi e “tatuaggi” che si imprimono sul nostro corpo. Ciò che gli altri dicono di noi, le storie che si iniziano a raccontare sul nostro conto, le fotografie che subito ci vengono scattate, costruiscono il nostro “io” e la nostra memoria viene subito a costituirsi come visiva e uditiva. La funzione delle facoltà mnemoniche è quella di conservare ciò che non può essere colto, il tempo e quell’immagine di noi stessi che, proprio perché soggetti al mondo della mutevolezza, non potrà mai mantenersi identica a sé stessa.

Iniziamo subito a cambiare, ogni secondo, ogni istante, il neonato ripete, come Socrate insegna nel Timeo, un ciclo che sembra perpetuarsi in natura ma che proprio nella ripetizione, presenta il mistero dell’irripetibilità di un gesto unico. Di tale processo, la sola cosa sempre nuova è paradossalmente la ripetitività stessa, che come tale non potrà mai essere replicata. Siamo identici perché diversi e l’identità è nel divenire e nel movimento in cui avviene il quid del processo, che proprio perché sempre in moto, non può essere visto o detto. Il neonato non distingue ancora bene le forme altrui ma la propria figura viene subito riconosciuta e ad essa, viene attribuito immediatamente un nome, attraverso la parola. Il nome è qualcosa di casuale che però viene a costituirsi come necessità e che subito viene a costruire la nostra identità.

“Anche il nome lo abbiamo ricevuto per caso, continuò Agnes. Non sappiamo quando abbia avuto origine e da dove l’abbia preso qualche lontano antenato. Non comprendiamo affatto quel nome, non conosciamo la sua storia e ciononostante lo portiamo con esaltata fedeltà, ci fondiamo con esso, lo amiamo e ne siamo ridicolmente fieri, quasi l’avessimo inventato noi in un momento di grande ispirazione. Il viso è come il nome.”.

Il soggetto umano, il quale non facendo eccezione nel mondo della natura, cambia e diviene di secondo in secondo, abitando il tempo, trova il principio della propria individualità e individuazione, in una parola, il nome e in un’immagine, quella del proprio riflesso nello sguardo altrui e poi via via nel grande numero di specchi che incontreremo nella nostra vita.

La costruzione dell’identità nel mondo dei cartoni animati, metafore vecchie e nuove per spiegare l’inesplicabile mistero dell’esistenza 

Il mondo dei cartoni animati può essere utilizzato come differenziale per analizzare questioni filosofiche, sociologiche e psicologiche come la costruzione dell’identità personale. L’edificazione di un “Io” attraverso segni e simboli, è ben esemplificata nel cartone animato disneyano “Oceania” (2016). In questo film di animazione, il coprotagonista, Maui, è un semidio mutaforma che ha costruito la propria identità con dei tatuaggi sul corpo.

Oceania

Questi segni sulla pelle del personaggio animato, rappresentano scene della sua vita vissuta e sono la memoria delle azioni e gesta passate. All’interno di un paradigma platonico, le immagini vengono controllate dal discorso su queste, invece nella modernità, con il cinema e soprattutto con l’animazione, sono le rappresentazioni visive a prendere il sopravvento e quasi a dominare lo sguardo dello spettatore. Colpisce il fatto che in “Oceania”, i tatuaggi di Maui, si muovano e siano animati invece di essere figure fisse.

In questo modo abbiamo un rovesciamento del modo tradizionale con il quale si è guardato all’immagine nella cultura occidentale. Tutto quello che in realtà è processo e movimento, viene percepito per semplicità come fermo ed immobile, così si fa largo uso di metafore fuorvianti per spiegare meccanismi mobili e processi interni come anche le funzioni mnemoniche. La memoria, all’interno di un paradigma platonico è qualcosa di stabile, che l’uomo per semplicità tende a raffigurarsi come una serie di pacchi, in cui sono contenuti i ricordi. Tale immagine piuttosto semplicistica ed ingenua di una delle massime facoltà umane, viene utilizzata per comodità anche nel mondo della scienza. In un’altra celebre rappresentazione Disney, “Inside Out” (2015), alla quale hanno lavorato illustri psicologi, si fa uso di un paradigma platonico per spiegare al pubblico cosa sia la memoria.

Inside Out

Quando i due personaggi di “Tristezza” e “Gioia”, si perdono all’interno del mondo dei ricordi, viene presentato agli occhi dello spettatore una specie di grande catasto, con dentro dei veri e propri compartimenti in cui vengono catalogate e smistate le memorie. In realtà il nostro sistema di ricordi è più vicino all’immagine della palla di neve restituitaci da Bergson. 

“La verità è che bisogna sfuggire a un’immagine della memoria che la vede somigliante alla scatola di latta dei ricordi, essa non consiste affatto in una regressione del presente nel passato, ma al contrario in un progresso del passato nel presente.” 

L’Altro: ostacolo o ausilio alla costruzione dell’Io

“Al momento della nascita, alla nostra identità è affiancato anche un numero, quello stabilito dal peso della bilancia

-Henri Bergson, Materia e Memoria. Saggio sulla relazione tra il corpo e lo Spirito, a cura di Adriano Pessina, Editori Laterza, 2014.

Parola e immagine, significante e significato, vengono associati nella cultura dei segni ma il simbolo dovrebbe essere inteso come ciò che unisce due cose distinte, che proprio perché vengono a relazionarsi, possono essere fuse conservando e mantenendo la loro diversità. La relazione e l’incontro con l’Altro non deve coincidere necessariamente con la spersonalizzazione, ma nel diverso, si può trovare l’uguale perché l’Uno non sarebbe tale se non includesse anche il suo opposto. Se l’Altro viene percepito come diverso, lontano ed estraneo, diventa ostacolo per il riconoscimento del proprio sé. Il mondo esterno e coloro che lo abitano insieme a noi sono di fondamentale importanza per la costruzione della nostra interiorità e vita emotiva.

“Nell’Essenza e forme della simpatia”, Scheler mostra, come all’inizio della nostra vita, non abbiamo coscienza e consapevolezza delle nostre emozioni e del nostro “Io”. L’originaria apertura al mondo, secondo il fenomenologo, ci pone all’interno di una relazione cosmovitale, attraverso la quale, con il sentimento da egli denominato “unipatia”, ovvero l’identificazione perfetta con il sentire del caregiver, iniziamo a creare quella che sarà la nostra identità. L’uomo è un essere assiotropico ed eterotropico, aprendosi all’esperienza e all’Altro, costruisce il proprio mondo interiore e quello dei significati. L’incontro con gli altri, dunque è fondamentale per il nostro io ma in questo “riflesso” ci si può perdere, smarrire, fino a naufragare tristemente come nel Mito di Narciso. Se non ci si riconosce nella figura altrui e non si percepisce quel diverso, che è anche dentro di noi, non si comprenderà come nella diversità vi sia anche l’uguale. 

L’identità è anche differenza, se non fosse e comprendesse la diversità non sarebbe identificazione perfetta e totalità. “A darsi è sempre Idea o Natura nel loro negarsi. L’una e l’altra non potranno non riconoscersi nel volto dell’altra, che è specchio rivelatore, nonché negatore di ciò che è.”.

Questo passo di Hegel, può essere letto come un ripensamento del rapporto dialettico con l’altro e come un possibile epilogo alternativo al Mito di Narciso. Se nel racconto greco, nell’ “incontro” con l’Altro, rappresentato dal riflesso del protagonista nell’acqua si ha il “naufragio”, vissuto con il dramma della morte, in questo incontro ci si può invece realizzare. Nel farsi diversi, si diviene ciò che si è. L’uomo è spaventato dall’immagine dei vari specchi che incontra, perché diverse, alternative, mai le stesse e perfette.  Tuttavia mai, un’immagine potrebbe catturare la fissità e la perfezione di qualcosa, proprio perché in quanto movimento e divenire, la realtà e la vita non possono essere catturate da una rappresentazione statica. Siamo continuamente esposti alle immagini e ai giudizi altrui ma non riceviamo mai un’educazione visiva. 

L’educazione alla diversità

Nella società attuale, in cui la diversità è scoraggiata a favore dell’omologazione e della conformità, educare all’incontro con l’altro si rivela essenziale. Nel cartone animato disneyano “Tarzan” (1999), il personaggio principale incontra L’Altro come ciò che potrebbe apparire assolutamente diverso, in quanto viene allevato da scimmie ma nonostante ciò, impara a percepire uguaglianza nella diversità. La relazione può unire e tenere insieme ciò che massimamente diverge come vediamo nei Poemi di Laforgue o nei quadri dadaisti. Nella cultura occidentale, gli uomini tendono a concepire le immagini e gli oggetti come fissi e ad essere estranei ai concetti di processo e divenire.

Tarzan

Il linguaggio, definisce, etichetta, chiude un’immagine e il modo in cui il mondo e quindi ciò che originariamente è percezione e rappresentazione visiva, viene detto, fa si che l’uomo pensi anche alle figure come a qualcosa di fisso.

Ciò che non muta è perfetto e così l’idea di perfezione viene ad accompagnare quella di rappresentazione visiva. 

L’assenza di mutazioni è rassicurante, per questo Platone contrapponeva al mondo sensibile il mondo delle Idee, essenze perfette e finite, estranee al movimento e ai cambiamenti. L’uomo si vive come corpo e nonostante, interiorità ed esteriorità siano inscindibili, vittime del pregiudizio cartesiano, tendiamo a vedere res cogitans e res extensa come due entità separate. Ancora, nel cartone disneyano “Inside out”, vediamo, per tutto il cartone, sempre la stessa immagine della protagonista Ridley, il suo corpo non subisce cambiamenti per tutta la durata della rappresentazione, invece le emozioni, la mente e tutto ciò che costituisce “l’anima” del personaggio, sono soggetti a innumerevoli trasformazioni. Il titolo stesso della pellicola, “Inside Out”, richiama il paradigma dualistico, platonico e cartesiano proprio dell’Occidente. La tendenza a rappresentare il corpo come qualcosa di fisso è riscontrabile in numerosi cartoni animati, che spesso utilizzano lo stesso disegno per il medesimo personaggio, ignorando il fatto che il corpo di questi possa subire mutamenti a causa del tempo e di altri fattori.

Proviamo a pensare alle figure utilizzate in “Mickey Mouse” , i vari protagonisti sono rappresentati sempre allo stesso modo: mai, ci viene presentato un Topolino che porti i segni del tempo, le variazioni di peso e di forma che un corpo può subire. Come magistralmente insegna Foucault, i media possono essere strumento utilizzato dal potere per veicolare messaggi ed esercitare la propria forza sulla popolazione. I cartoni animati, al cui mondo siamo iniziati fin da piccolissimi, si fanno portatori di una certa idea di corpo e di figura esteriore. Questa forma di biopotere, tale per cui la società impone e stabilisce una certa idea di corpo, risulta essere molto incisiva nei tempi odierni e contribuisce spesso alla diffusione di uno dei disagi psichici più diffusi della nostra epoca: i Disturbi del Comportamento Alimentare.

Articolo a cura di Martina Migliarini. Appassionata di filosofia , psicologia , arte , teatro . Praticante di calisthenics , amante delle passeggiate in montagna. I seguenti articoli derivano da un paper di studio redatto e scritto da Martina Migliarini. Link per accedere alla Bibliografia.

Contenuto a cura di Martina Migliarini

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