La voglia di ri-trovarmi
“Anche se nessuno può tornare indietro e ricominciare da capo,
chiunque può ricominciare da ora e creare un nuovo finale”
(Carl Bard)
Non è stato facile iniziare a scrivere, ma ho deciso di donarmi, tramite la mia storia, a chiunque la leggerà.
Riportare, tra queste righe, il mio vissuto, sarà un salto all’indietro, nel passato,che mi farà provare la vertigine di una vita trascorsa sulle montagne russe.
Racchiudere l’essenza degli anni trascorsi in un insieme di parole è catartico perché significa liberarmi e fissare, in maniera indelebile, tante ed intense emozioni, che torneranno a colpirmi con una forza invadente ed inaspettata.
Senza anticipare nulla, spero solo che la mia storia possa regalare, anche solo tramite una frase, una parte della mia persona o delle mie esperienze, donando speranza e vicinanza a chi, in questo momento, ne ha bisogno.
Se mi dicessero di descrivere le mie ambizioni in una frase, penso che l’espressione che più mi calza a pennello sia: “Alla ricerca di una perfezione (imperfetta)”.
Io sono Celeste
Sono Celeste Bucaioni, ho quasi 23 anni e abito in provincia di Perugia.
Sono una studentessa universitaria e frequento il quinto anno di “Scienze della Formazione Primaria”, infatti la tanto attesa laurea è prevista per il mese di luglio del 2022. Ma, ad oggi, dopo tanta dedizione, impegno e rinunce, sono cosciente che la scelta di tale percorso è frutto della mia confusione globale, tanto da essersi rivelata, nel corso degli anni, uno degli errori più gravosi del mio percorso professionale.
Grazie alla consapevolezza della mia “vera me”, riscoperta anche grazie al disturbo alimentare e al conseguente percorso psicologico, ad oggi, ho saputo metabolizzare ed accettare l’erroneità della scelta universitaria. Ma sto imparando a non vivere con un senso di colpevolizzazione o autocritica, come ho fatto fino ad oggi, ma come una tappa necessaria, dalla quale ripartirò verso la costruzione del futuro professionale che permetterà di realizzarmi.
Ho deciso di dedicarmi ad un percorso congiunto che mi permetta di coniugare, in maniera olistica, il mondo della nutrizione e della psicologia, con la volontà di prestare il mio aiuto a persone che soffrono di un Disturbo del Comportamento alimentare.
Passare dall’essere paziente a guida ed esempio sarà appagante, soddisfacente e farà bene alla mia anima: potrò aiutare gli altri a salvarsi, ma solo dopo aver salvato me stessa.
Un’informazione della mia vita che non ometto mai, e che rivelo fin da subito, è che sono sposata da più di un anno, dopo un fidanzamento di nove anni, e ho un figlio di un anno e che, ad oggi, sono quella preziosa àncora di salvezza che mi permette di non affondare, soprattutto in questa pericolosa tempesta, ma ci sarà una buona porzione della mia storia dedicata a questo argomento.
Quando avevo 13 anni
Da quel che ricordo, ho iniziato a percepire che qualcosa in me non andava all’età di 13 anni quando, in maniera ingenua e poco cosciente, ho iniziato a negarmi il piacere del cibo.
Quando frequentavo le scuole medie ero un’adolescente introversa, dall’attitudine esistenzialista e amante della solitudine, tanto che facevo molta fatica a stabilire relazioni d’amicizia stabili. Queste difficoltà che coinvolgevano la socialità, non erano altro che la conseguenza di un rapporto conflittuale con me stessa: sono sempre stata una perfezionista e non ho mai apprezzato i difetti (oggettivi?) della mia fisionomia.
Questo ha generato un sentimento negativo e svalutante verso il mio corpo.
Questi pensieri hanno radicato in me una profonda insicurezza, conducendomi non solo ad una non accettazione della mia persona, ma anche ad un’eterna insoddisfazione per ogni cosa che facevo: non era mai abbastanza.
Alla ricerca di un’utopia
Da quel momento, per colmare tale quotidiana irrequietezza, ho deciso di mettermi alla ricerca di una perfezione utopica, partendo dal mio aspetto fisico: ho iniziato a mangiare di meno, fino a digiuni sporadici e, solo dopo un mese di regime alimentare restrittivo, il mio corpo mi ha dato il primo avvertimento preoccupante. Dopo giorni di attesa il ciclo mestruale non si è presentato e ho compreso che il mio atteggiamento, nei confronti del cibo, si era mostrato controproducente per la salute.
Mi sono detta che non avrei potuto peggiorare la situazione e ho deciso di trovare un compromesso con il mio corpo: sarei tornata a cibarmi in maniera adeguata, ma facendo attività fisica intensa. Tale prospettiva poteva rappresentare un giusto punto di equilibrio “salute-immagine positiva di sé”, ma poi l’eccesso ha preso il sopravvento. Ho iniziato a fare nuoto, quasi a livello agonistico, non solo per le sensazioni di benessere e di libertà che mi trasmetteva questo sport, ma perché potevo permettermi di mangiare ciò che volevo, senza sentirmi in colpa.
Avevo iniziato a mettere in atto un meccanismo di “credito” per cui, sapendo di consumare energie facendo attività fisica, sapevo di potermi concedere un certo quantitativo di cibo.
Ma, nemmeno questa condizione mi soddisfaceva perché, l’intensità degli allenamenti, mi ha condotto a raggiungere una massa muscolare eccessiva e non di mio gradimento. Ricordo che, un giorno, provai un paio di jeans che solitamente indossavo senza problemi e mi vidi così grossa, in corrispondenza dei polpacci, che ho deciso, di punto in bianco, di smettere nuoto.
Da quel momento, durante i cinque anni della scuola superiore, ho vissuto momenti di forte instabilità e sono stata costantemente prigioniera di una forma pervasiva e nevrotica di “dispercezione corporea”, la quale ha offuscato (e continua a farlo) la visione della realtà, come una nebbia che limita la visione di un bel paesaggio.
Riflettendoci, mi sono sempre guardata con occhi sbagliati, da tutti i punti di vista: dalle severe pretese che avevo verso me stessa ad un “non essere e/o non fare mai abbastanza”, che mi ha messo alla ricerca di un’idealizzazione immaginaria della mia persona.
Ho trascorso anni a vagare verso una meta non definita, con la bussola rotta, continuando a far vacillare un equilibrio psico-fisico che oramai era spezzato.
In cinque anni sono passata da momenti di lieve sottopeso, ad altri di maggiori concessioni, senza limitazioni particolari, raggiungendo un peso che mi faceva sentire a disagio.
Il corpo è la manifestazione visibile dei contenuti dell’anima.
Le mie condotte alimentari sono sempre state la proiezione di una irrequietezza interiore e di una instabilità costante: il corpo è la manifestazione visibile dei contenuti dell’anima.
Ricordo che spesso, quando uscivo con le mie amiche, provavo un’immensa rabbia nel notare che, nonostante ci concedessimo il piacere dello stesso cibo, il mio corpo tendeva a accumulare chili con maggiore facilità.
Infatti, mentre loro si gustavano calde pizze, io ero “l’amica dell’insalata”, infatti, nella volontà rimanere nella “comfort zone”, nella quale riuscivo a controllarmi meglio, non riuscivo più a concedermi il piacere del cibo consumato in compagnia e il “privilegio” di un piatto più sfizioso e soddisfacente per il palato.
Il momento di maggiore disgusto, sì, proprio questo provavo per il mio corpo, è stato tra il quarto e il quinto anno delle scuole superiori, dove una semplice fotografia che mi ritraeva fu una pugnalata al petto, in quanto vidi una persona che aveva smesso di prendersi cura di sé.
Ad aggravare tale stato d’animo, si verificarono specifici episodi che rappresentarono la “goccia che fece traboccare il vaso”, conducendomi alla deriva della mia vita.
In occasione di uno scontro verbale con una mia compagna di classe, questa mise in evidenza il mio aumento di peso: lo fece usando parole poco gradevoli, anzi, fortemente influenzanti e frustranti.
Ma, ciò che mi condusse, irreversibilmente, ad un cambiamento radicale è stata un’espressione pronunciata da una persona fortemente influente per me che, forse, nemmeno in maniera malevola, mi disse la testuale frase: “Sei ingrassata rispetto a prima”. Posso assicurare, che la pesantezza delle stesse, ha gravato sul mio cuore e sulla mia mente più di qualunque sasso, andando solamente ad alimentare un disturbo alimentare che stava per esplodere in maniera evidente e ricordo che il dolore si è tramutato in amare ed interminabili lacrime.
Non voglio colpevolizzare persone o fatti esterni della condizione gravosa in cui mi trovo ora ma, sicuramente, ci sono state isolate variabili che hanno rappresentato il rinforzo di una serie di sensazioni “scomode” che iniziavano a muoversi dentro di me.
Ho iniziato ad evitare alcuni alimenti e a “tagliare” le quantità, demonizzando in particolare tutte le tipologie di dolci e i carboidrati, ma ancora la mia condizione era assolutamente accettabile, anche se chi mi circondava ha iniziato a notare una repentina perdita di peso.
Il periodo che ha caratterizzato l’inizio del mio declino psico-fisico è stato un viaggio: il famoso viaggio “della maturità”.
Quel momento dovrebbe essere vissuto come un importante traguardo, quale la fine di un lungo percorso scolastico e l’inizio dell’apertura verso la vita reale ma, nonostante ciò, ho solo il ricordo di Malta e di quella settimana, come la mia condanna.
Sono stati dei giorni nei quali nessuno aveva il controllo su di me e, potendo autogestire i pasti, ad oggi confesso di non aver ingerito quasi nulla, perdendo troppo peso in un lasso di tempo inaccettabile. Ricordo nitidamente che le mie abitudini alimentari, messe a confronto con quelle delle mie amiche, erano così noiose e reiterate: a colazione mangiavo solo una pesca, per poi colmare i morsi della fame con una quantità eccessiva di liquidi come caffè o tisane. Prima di andare in spiaggia preparavo il “pranzo” (l’ho messo tra virgolette perché non lo si può ritenere in pasto), costituito da una quantità irrisoria di proteine, per poi riempirmi, invece, di verdure. Ogni giorno che passava sentivo le mie forze decrescere e il mio corpo abbandonarsi, mentre provavo sentimenti contrastanti: l’euforia di una dimagrimento evidente, ma la paura consapevole di star conducendo uno stile di vita malsano.
Al mio rientro ho generato “spavento”, sì, è questa la parola utilizzata da chi mi ha visto scendere dal pullman, per il cambiamento fatto e l’evidente deperimento fisico. Paradossalmente pesavo più di ora, ma ero comunque in grave sottopeso per la mia struttura fisica e, da quel mese, è iniziata l’amenorrea, che si sta ripetendo da ben 5 anni.
Celeste all’università
Durante gli anni di università non sono mai riuscita a superare del tutto i miei limiti mentali e le convinzioni distorte riguardo al mio fisico, tanto che continuavo a vedere delle forme sgradite, anche in condizioni di sottopeso più o meno accentuato. Il mio peso ha fluttuato per anni ma, il momento nel quale ho toccato il fondo, è stato quando ho iniziato la tanto diffusa dieta “chetogenica”, omettendo definitivamente qualunque tipologia di carboidrato: questo ha generato un evidente peggiorando della mia condizione ormonale e riproduttiva, fino a sentir parlare di “blocco totale” del mio corpo e dei miei apparati.
Intanto, ero fidanzata con il mio attuale marito da tanti anni e in noi stava nascendo il desiderio di diventare genitori.
Dentro di me è iniziata una lotta quotidiana: da una parte c’era una forma fisica “insana” fatta di privazioni e malnutrimento e dall’altro la voglia di stare bene, per poter dare vita ad una nuova vita, diventando mamma.
Ero, però cosciente, che prima ero io a dover rinascere, per poter dare forma al desiderio che portavo nel mio cuore. Iniziai a riprendere qualche chilo, tra vari consulti nutrizionali falliti, per la mia mancanza di adesione al trattamento ma, nonostante il raggiungimento di un peso decente e più accettabile dei precedenti, il mio corpo non sembrava voler accogliere il sogno che tenevo gelosamente dentro.
Da quel momento è iniziata la “ricerca della cicogna” ininterrotta per ben un anno e mezzo, senza risultati.
Ho deciso che la situazione doveva cambiare e che avrei dovuto consultare degli specialisti: ho iniziato a prendere appuntamenti su appuntamenti tra ginecologi e specialisti, tra cui anche un primario dell’ospedale della città in cui vivo, ricevendo qualche commento su un evidente blocco ormonale, con la conseguente somministrazione di integratori blandi ed inefficaci.
Ho continuato a vivere tale frustrante condizione per diversi mesi, per poi pensare di aver trovato la soluzione presso un endocrinologo, che mi prescrisse una cura ormonale: questa mi illuse di un ritorno alla normalità, con la stimolazione di un ciclo mestruale innaturale, il quale scomparve con l’interruzione della terapia.
La situazione aveva raggiunto un livello di stallo insopportabile: ho iniziato ad odiare il mio egoismo, mentre ero intrappolata in un corpo nemico che mi faceva scontare il trattamento non rispettoso che gli avevo riservato per anni.
Ho passato giornate con test di ovulazione e di gravidanza negativi in mano, a piangere, nell’illusione che avrei visto comparire una leggera seconda linea, tanto che osservavo scrupolosamente quegli stick da tutte le angolazioni e con vari gradi di luminosità, ma l’esito continuava ad essere lo stesso.
Intanto, nella disperazione più profonda, acquistavo compulsivamente integratori specifici per aumentare la fertilità e calcolavo in maniera malata tutti i giorni del mese, non comprendendo perché il mio corpo non voleva farmi questo regalo.
Ogni giorno, per mesi, immaginavo: quelle due linee vivide, la pancia crescere, il battito di un puro cuoricino dentro di me, mentre piangevo e mi condannavo, nella probabilità che non avrei potuto mai vivere questi piccoli, ma grandi, doni della vita.
Un giorno ho compreso che, se non avessi agito, il mio corpo non mi avrebbe aiutato.
Ho deciso di consultare una clinica privata ed è lì che ho conosciuto il mio angelo custode e l’autore del più bel miracolo che mi potesse capitare. Il ginecologo da cui andai mi fece rendere conto che, l’atteggiamento egoistico che stavo avendo, non mi avrebbe permesso di diventare madre, ma che avessi collaborato, riprendendo qualche chilo mancante, mi avrebbe dato la stimolazione ormonale giusta per riuscire nell’intento.
Queste parole mi riempirono il cuore di speranza e decisi che avrei dovuto mettere da parte “l’Io egoista”, nella consapevolezza che il mio apparato riproduttore non si era arreso, ma aveva solo cercato di avvisarmi della mia condotta inadeguata, nella speranza che tornassi ad immettere tutti i nutrienti di cui avevo bisogno.
Ho iniziato la cura tanto attesa, con punture di ormoni: il mio corpo ha iniziato a gonfiarsi, a causa delle soluzioni concentrate che iniettavo, ma ho chiuso gli occhi davanti allo specchio e mi sono focalizzata su un solo obiettivo, che non era più il mio aspetto estetico, bensì il desiderio di stringere tra le braccia la “forma” tangibile del sogno che portavo un me da anni.
Dopo mesi di fallimenti, ho compreso quanto i miei sforzi, la perseveranza costante e uno schiacciamento totale dell’Ego, erano valsi a qualcosa.
Era il 17 marzo 2020, quando ho visto comparire quelle due linee, che stavo sognando in maniera ossessiva da anni, e lì ho provato la Gioia, la vera Gioia!
Sono stati nove mesi intensi, in cui la gravidanza si è evoluta senza particolari complicanze, ma ho continuato a prendere pochi chili, in proporzione ai mesi di gestazione. Ricordo che tra il settimo e l’ottavo mese, il piccolo ha preso poco peso, rispetto a quello che avrebbe dovuto ed ero perfettamente cosciente che la colpa era solamente la mia e delle mie condotte compulsivamente restrittive.
Non stavo ingerendo abbastanza nutrienti che fossero sufficienti per entrambi e mi sono sentita fortemente in colpa.
Nonostante il disturbo alimentare mi abbia accompagnato anche durante la gravidanza, non mi sono mai fatta sovrastare in maniera irreparabile e Gabriele è nato di soli 3 chili, ma in perfetta salute.
Ricordo il momento post-parto in maniera particolarmente piacevole perché, dopo 9 ore di travaglio e un’ora di spinte, mi sono goduta un bel croissant alla marmellata di albicocca con grande piacere e spensieratezza, come se in quel momento non era il cibo il mio pensiero prevalente, ma il miracolo che era in quegli istanti, per la prima volta, tra le mie braccia.
Nei mesi successivi, dovendo allattare, ho cercato di alimentarmi adeguatamente, anche se fortemente trattenuta di fronte a specifici alimenti che ho continuato ad evitare.
Poi è arrivato il Covid-19
Dopo soli due mesi e mezzo dal parto, ho contratto il Covid, e con me anche tutta la mia famiglia e da quel momento, considerando la debilitazione generale, è conseguita una perdita di peso importante, conducendomi all’interruzione dell’allattamento.
Da lì ho iniziato a perdere chili a vista d’occhio e, mentalmente, la malattia ha iniziato a prendere il sopravvento su qualunque pensiero razionale.
Ho iniziato a mettere in pratica atti ossessivi e ripetitivi: quello di pesarmi ogni mattina, rigorosamente a digiuno e con l’intestino vuoto; quello di eliminare definitivamente elementi come l’olio o qualunque fonte di grassi, giungendo ad un consumo ripetuto degli stessi alimenti ad ogni pasto; quello di sminuzzare il poco cibo che avevo sul piatto, sparpagliandolo, di modo da farlo sembrare più abbondante, agli occhi di chi era al tavolo con me o quello di guardami compulsivamente allo specchio, per inibire la “vocina” persecutoria, che mi faceva notare il volume eccessivo di qualche parte del corpo.
Ho iniziato a prendere coscienza della pervasività della malattia quando mi sono accorta che, ogni sera, senza nemmeno accorgermene, mi ero ridotta SEMPRE un yogurt alla soia, dell’insalata e qualche galletta di riso.
Questa abitudine si è protratta fino all’autunno del 2021, quando oltre al mio aspetto sempre più preoccupante, ho iniziato a percepire chiari cedimenti fisici, di cui non ho mai parlato con nessuno.
Dopo soli due mesi e mezzo dal parto, ho contratto il Covid, e con me anche tutta la mia famiglia e da quel momento, considerando la debilitazione generale, è conseguita una perdita di peso importante, conducendomi all’interruzione dell’allattamento.
Da lì ho iniziato a perdere chili a vista d’occhio e, mentalmente, la malattia ha iniziato a prendere il sopravvento su qualunque pensiero razionale.
Ho iniziato a mettere in pratica atti ossessivi e ripetitivi: quello di pesarmi ogni mattina, rigorosamente a digiuno e con l’intestino vuoto; quello di eliminare definitivamente elementi come l’olio o qualunque fonte di grassi, giungendo ad un consumo ripetuto degli stessi alimenti ad ogni pasto; quello di sminuzzare il poco cibo che avevo sul piatto, sparpagliandolo, di modo da farlo sembrare più abbondante, agli occhi di chi era al tavolo con me o quello di guardami compulsivamente allo specchio, per inibire la “vocina” persecutoria, che mi faceva notare il volume eccessivo di qualche parte del corpo.
Ho iniziato a prendere coscienza della pervasività della malattia quando mi sono accorta che, ogni sera, senza nemmeno accorgermene, mi ero ridotta SEMPRE un yogurt alla soia, dell’insalata e qualche galletta di riso.
Questa abitudine si è protratta fino all’autunno del 2021, quando oltre al mio aspetto sempre più preoccupante, ho iniziato a percepire chiari cedimenti fisici, di cui non ho mai parlato con nessuno.
Ricordo che spesso, a fine pasto, continuavo a sentire i morsi della fame, ma imponevo alla mia mente e alle mie pulsioni alimentari, di non soddisfare tale richiesta perché questo avrebbe precluso un’eccessiva sazietà e l’assunzione di troppe calorie.
Ricordo che, ogni volta che dovevo compiere un’azione particolarmente energica, come salire le scale o prendere in braccio mio figlio, sentivo la fatica incombere prontamente, portandomi a provare un senso di debolezza, con tanto di capogiri ed instabilità.
Ricordo che, quando mi mettevo a letto, a volte provavo una strana sensazione al petto, comprendendo che il mio cuore non stava funzionando come avrebbe dovuto. Anche lui mi stava avvisando che avrei dovuto cambiare la rotta delle mie abitudini e della mia vita.
Ricordo che il mio umore era molto instabile, cosa che purtroppo mi porto dietro, come un pesante bagaglio e conseguenza, ancora oggi.
C’erano dei momenti di esaltante euforia ed iperattività fisica, in particolare quando mi guardavo allo specchio e, nella forma scheletrica in cui mi trovavo, vedevo la distorta perfezione che tanto avevo cercato.
La sensazione di autocontrollo sul mio corpo e di ferrea disciplina che mi imponevo, mi facevano percepire l’equilibrio globale della mia persona che, di fatto, non era tale!
Ho poi iniziato a provare stanchezza, associata spesso a nervosismo, poca pazienza nei confronti di qualunque situazione, un abbassamento della concentrazione e una furia iraconda , che si manifesta in maniera incoerente rispetto alle situazioni vissute.
Non stavo bene
Mi rifiutavo di seguire qualunque percorso psicologico o nutrizionale, convinta (sbagliando) di poter contare solamente sulla mia forza e di poter porre rimedio ad ogni complicazione in maniera autonoma, lasciandomi guidare da un orgoglio irremovibile.
Ben presto ho iniziato a maturare che tale pretesa era solamente un’utopia: si trattava di un castello di sabbia che la mia mente aveva costruito per annebbiare l’evidenza di una realtà malata e pericolosa che stavo vivendo.
Sapendo che non avrei ascoltato i consigli di nessuno, mi sono affidata all’unica persona che mi ha veramente salvata e che mi ha fatto nascere due volte: la prima facendo funzionare il mio corpo e la seconda permettendomi di vivere la gioia di un figlio. Mi sono rivolta, quindi, al mio ginecologo, sperando che le sue parole avrebbero innescato un me quella consapevolezza che, da sola, non stavo riuscendo a maturare e così è stato.
Quando mi ha vista, il suo volto ha palesato angoscia e preoccupazione. Ha capito che mi stavo rivolgendo a lui non tanto per confermare, per l’ennesima volta, la mia condizione di amenorrea, ma per essere aiutata a cambiare, partendo dalla mia confusione interiore.
Il suo atteggiamento spesso ironico ed informale è cambiato, quando, togliendomi la giacca, ha notato il mio aspetto emaciato. Ha iniziato a dire frasi che hanno penetrato il mio cuore come dei proiettili ed è da quel preciso momento che ho deciso di cambiare.
Sono bastate poche parole, dirette e crude, per farmi scontrare con una realtà scomoda, ma presente: la pretesa egoistica di raggiungere un preciso prototipo di bellezza, stava logorando una vita piena di piccole gioie, che invece dovrebbero essere vissute nel presente.
Ma una frase che mi ha dilaniato con violenza è stata: “Pensavo che avessi fissato l’appuntamento perché stavi di nuovo aspettando un bambino”.
In quell’istante, ho provato una destabilizzazione così profonda, che mi è sembrato di cadere nel vuoto, un vuoto interminabile.
Le sue parole sono state la mia salvezza, infatti ho visto nelle sue parole solo tanto amore e desiderio di pormi la sua mano: non smetterò mai di dirgli grazie.
Da quella visita, dentro di me, è cambiato qualcosa e ho compreso quanto i miei pensieri e i miei gesti fossero schiavi di una sete di perfezione tanto nociva, quanto inesistente.
Ho anche compreso che era il momento di mettere l’eccessivo orgoglio, che mi caratterizza, da parte, accogliendo per la prima volta aiuto e ammettendo di averne bisogno. Ho iniziato un percorso congiunto di tipo nutrizionale e psicologico, il quale ha rappresentato la colonna portante della mia rinascita.
Inizialmente l’entusiasmo derivante dal cambiamento mi ha reso estremamente collaborativa e motivata, ma ho poi compreso che non potevo sperare che altri risolvessero i miei problemi psicofisici al posto mio: tutto dipendeva da me!
Grazie al percorso psicologico ho compreso quanto un disturbo alimentare sia solamente la trasposizione esteriore di una condizione interiore complessa e irrequieta.
Con tali condotte malsane:
sto solamente chiedendo aiuto,
sto solamente esternando le miei inquietudini,
sto solamente “parlando” tramite il mio corpo,
ma sta a me comprendere quale sia la sorgente di tale condizione mentale, per poi porvi rimedio.
“Di regola, ciò che non si vede disturba la mente degli uomini
assai più profondamente di ciò che essi vedono”
(Giulio Cesare).
Ad oggi, sono in una fase di transizione, nella quale l’instabilità mi accompagna giornalmente: in alcuni momenti la voglia di rinascere mi spinge a superare quei limiti che da tempo mi impongo, ma in altri torno sulla mia strada, nuovamente condizionata da pensieri fortemente influenzanti ed autodistruttivi.
Sto notando piccoli passi in avanti nelle abitudini quotidiane, che mi rendono costantemente soddisfatta dei miei sforzi e delle piccole battaglie vinte contro me stessa. Ad esempio, tornare a variare la scelta alimentare nei diversi pasti e, soprattutto smettere definitivamente di buttare cibo nel cestino di nascosto o di avvolgerlo nel tovagliolo, trovando poi il giusto momento per gettarlo.
Finire tutto quello che è nel piatto è una grande soddisfazione, anche se ancora le mie porzioni non rispondono a quelle che dovrei consumare, in proporzione alle mie esigenze, tanto che a volte mi trovo a finire qualche avanzo da sola, in separata sede, in cucina, in particolare nei momenti in cui i crampi della fame non se ne vanno nemmeno dopo i pasti.
Una delle fissazioni che, purtroppo, è ancora radicata in me è la “dipendenza dalla bilancia”, la qualche diventa il parametro di riferimento del mio umore giornaliero: continuo a sentirmi prigioniera di una serie di cifre, dalle quali dipendo, vista il loro potere condizionante.
Nelle mattinate nelle quali trovo la forza di non pesarmi, il pensiero di quel numero mancante mi logora durante la giornata in maniera intermittente, condizionando le mie azioni quotidiane e le mie scelte alimentari.
Inoltre, quando vedo l’ago della bilancia salire leggermente, anche solo di qualche grammo, si innesca un meccanismo mentale controverso: da una parte provo la soddisfazione di star facendo qualche passo in avanti verso la Vita e mi ammiro per la forza che sto trovando in me stessa ma, dall’altra, una minacciosa immagine mentale mi perseguita, ossia quella di un corpo che detesto ed un corpo che non voglio tornare ad avere.
Sono stanca di vivere da prigioniera: sto iniziando a percepire il peso di me stessa, tanto che sono giunta a considerare opprimente anche l’aiuto prestatomi dall’esterno.
Ho maturato come il background sia tanto essenziale, quanto influenzante. I miei familiari sono state le prime persone ad accorgersi del mio disagio psico-fisico ma, cercando di darmi aiuto, non hanno fatto altro che intensificate sensazioni di irrequietezza ed instabilità che vivevo dentro.
Ad oggi, mi rendo conto, che spesso: i loro consigli, le loro imposizioni, le loro prese di posizione e i costanti scontri, non erano altro che una manifestazione inadeguata di preoccupazione. Posso comprendere come per i genitori, in particolare, non sia semplice vedere una figlia spegnersi, perdendo la luce negli occhi, il sorriso in volto e la sete di vita.
Non è stato (e non è) un periodo semplice, in quanto, oltre a combattere una guerra violenta e quotidiana contro la malattia che mi consuma la mente e le membra, devo riuscire anche a schermarmi dal mondo esterno.
Un mondo esterno talvolta insensibile, irrispettoso, malvagio e mancante di empatia. È necessario costruire quasi una rigida corazza, essenziale per proteggersi da commenti, benevoli o malevoli che siano, ma che, in questo delicato frangente, possono risultare scomodi ed inadeguati, ad una condizione di estrema vulnerabilità.
In questo momento, nel tentativo di rinascere, ho voglia.
Ho voglia di sentirmi nuovamente libera,
ho voglia di guardarmi allo specchio e finalmente vedere un riflesso lucido della vera me,
ho voglia di non dipendere da pensieri e da comportamenti tossici,
ho voglia di ritrovare la serenità che mi è stata strappata,
ho voglia di essere l’artefice della ri-costruzione del mio presente e del mio futuro, fatto di speranze e di tanti traguardi da raggiunti,
ho voglia di tornare a VIVERE veramente, liberandomi dall’eterna insoddisfazione o dalla fame di utopica perfezione da cui sono posseduta da tanto, troppo, tempo,
ho voglia di tornare ad essere identificata come Celeste.
Io non sono la mia malattia
Questa sono io, nella mia invisibile complessità, con le mie imperfezioni, le mie debolezze e i miei limiti.
Sono, però, felice di essermi messa a nudo perché, ammettere di stare male pubblicamente, non è elemosinare attenzioni o pietà da parte dell’altro e non è una perversa tendenza egocentrica, ma è segno di forza.
La forza di leggersi dentro, la forza di ammettere un grande senso di disagio e di vulnerabilità e la forza di chiedere aiuto, per imparare, gradualmente, ad aiutarsi.
Durante i momenti più complessi ho trovato sostegno e una culla rassicurante nella musica, quella musica che è riflesso di profondi sentimenti e dispensatrice di preziosi messaggi.
Tra tutte, quella che porto gelosamente nel cuore e che ho condiviso con il meraviglioso gruppo di Animenta di cui sono fieramente volontaria, è “Abbi cura di me” di Simone Cristicchi, la quale é un inno alla vita.
L’autore ne parla come un vero e proprio “miracolo” che ciascuno di noi costruisce ogni giorno: tale “privilegio” dovrebbe indurci a sfruttarne ogni attimo nel modo più soddisfacente e propositivo, anche se molti/e di noi sanno che non è sempre così.
Ma, questa dura realtà, non preclude la possibilità di un cambiare rotta.
“Attraversa il tuo dolore, arrivaci fino in fondo”.
Solamente quando si prende coscienza del dolore vissuto, lo si riconosce come parte scomoda di sé, allora si è pronti a sovrastarlo e a vincerlo.
“E ti accorgerai che il tunnel è soltanto un ponte e ti basta solo un passo per andare oltre”.
L’immagine di un tunnel che diventa ponte, mi fa immaginare la malattia come una via senza uscita, almeno in un momento iniziale, ma che poi si trasforma in un ponte, quale mezzo tra una “vecchia” vita da cui si vuole scappare ed una nuova che si ha un bramoso desiderio di scoprire.
Questo è il libro della mia vita, fino a questo momento, ma spero che il prossimo capitolo sia coronato da una sola condizione: la guarigione.
Non ho la pretesa di liberarmi in maniera immediata dell’abitante indesiderato della mia mente e della mia anima, ma ho la speranza di vincere piccole e soddisfacenti battaglie quotidiane, fino al momento nel quale potrò uscire trionfante da una guerra lunga, ma non interminabile.