Animenta racconta l’anoressia nervosa: la storia di Sofia

Animenta racconta l'anoressia nervosa: la storia di Sofia

Sono Sofia. Ho 20 anni, ma la mia anima ne ha vissuti molti di più. Sono sempre stata una bambina magra, con un corpo che sembrava non dover lottare per essere com’era. Ma la verità è che la sofferenza non si misura in chili e la malattia non fa distinzione. L’anoressia nervosa non nasce dalla voglia di essere magra, ma da un dolore che ti divora dentro, un vuoto che cresce silenzioso, nascosto agli occhi di chi ti guarda. 

La mia battaglia è iniziata piano, quasi senza far rumore. Non era una guerra fatta di urla o di gesti eclatanti. Era un grido soffocato nel petto, un sorriso finto che nascondeva lo sguardo spento di chi non vedeva più un motivo per alzarsi la mattina. È stata una lotta solitaria, che mi ha portata a camminare su un filo sottilissimo tra la vita e l’abisso, un filo che a volte sembrava sul punto di spezzarsi.

Ci sono stati giorni in cui mi sembrava di affogare nel vuoto, eppure ho continuato a respirare. Altri giorni in cui ho creduto di vincere, solo per scoprire che la caduta era dietro l’angolo.

Ogni passo avanti sembrava cancellato da una ricaduta, ma è in quei momenti, nei più bui, che ho trovato la forza che non sapevo di avere. Una forza fragile, fatta di lacrime, paura e una flebile speranza di rivedere un giorno la ragazza che ero.

L’anoressia mi ha portata lontano da tutto ciò che amavo, ma mi ha anche insegnato che la luce può esistere anche nei luoghi più oscuri. Ho imparato che chiedere aiuto non è debolezza, ma coraggio.

Questa è la storia di una guerra che mi ha strappata a me stessa e poi, lentamente, mi ha insegnato a tornare a vivere. È la storia di come ho ricominciato a respirare quando tutto sembrava finito. Una storia di lacrime, ma anche di rinascita. Se sei qui, leggendo queste parole, voglio dirti una cosa: non smettere mai di lottare. Anche nel buio più nero, la luce può tornare. Sempre.

Il primo passo nell’oscurità dell’anoressia nervosa

Nell’estate del 2021, senza accorgermene, ho spezzato il patto d’amore con il mio corpo.

“Non ho tanta voglia di mangiare, fa troppo caldo.” Una frase banale, come tante.

Ma dietro quelle parole, già si nascondeva un’insidiosa promessa, un’invisibile crepa in cui si sarebbe presto infilata una voce subdola. La chiamavo Diabla, e in poco tempo avrebbe conquistato ogni angolo di me, senza che me ne rendessi conto.

A luglio, partii per la montagna, dove tutto sembrava normale, quasi spensierato. Apparentemente, tutto era sereno, ma in realtà Diabla si era già insediata in me, tessendo la sua tela in silenzio. Senza che me ne accorgessi, qualcosa in me stava cedendo. Stavo perdendo peso, giorno dopo giorno, chili scivolati via come neve al sole, rubati nel buio della notte. Con l’arrivo di settembre mi dicevo che tutto sarebbe tornato come prima. Pensavo che la scuola, le amicizie, la routine quotidiana mi avrebbero riportata alla normalità, scacciando via quella nebbia pesante.

Ma Diabla aveva altri piani per me. Le sue parole diventavano un sussurro insistente, una pressione costante che non mi lasciava scampo. Quella che era iniziata come un’estate tranquilla si era trasformata nel preludio dell’inferno.

Mangiare era diventata una colpa, un peso, un incubo da evitare. Era come essere intrappolata in un labirinto oscuro, dove ogni pasto era una lotta per la sopravvivenza.

I disturbi alimentari non sono solo una questione di cibo. Sono malattie che ti spezzano l’anima, ti dividono a metà, trasformano la vita in una continua resistenza. Ogni giorno ero costretta a lottare contro quella parte di me che voleva consumarmi, e ogni giorno diventava più difficile trovare la forza per farlo.

Senza un luogo di rifugio

L’estate del 2021 segna l’inizio della mia anoressia, ma è anche l’inizio di un viaggio tra labirinti di attese, incomprensioni e ostacoli apparentemente insormontabili.

Nel momento in cui ho capito di essere intrappolata in un vortice che stava consumando la mia mente e il mio corpo, ho pensato che la soluzione fosse semplice: chiedere aiuto. Quello che non sapevo era che, in Italia, trovare un centro adeguato per i disturbi del comportamento alimentare non era affatto scontato. Il primo passo è stato ammettere che da sola non potevo farcela.

Ricordo quella mattina in cui dissi a mia madre “Mamma, ho bisogno di aiuto”, quasi un grido disperato. Insieme, abbiamo iniziato a cercare informazioni, a fare telefonate, a chiedere consigli.

Le settimane passavano, e il mio corpo diventava sempre più fragile. Eppure, mi sentivo invisibile. Ogni volta che spiegavo il mio problema, mi sembrava di non essere compresa. Qualcuno mi diceva che dovevo solo mangiare di più, come se il cibo fosse l’unico problema. Altri mi offrivano soluzioni generiche, come una visita di controllo ogni tanto, troppo poco per la mia condizione che peggiorava giorno dopo giorno. Quando ci rivolgemmo all’ospedale, non venni accettata dal reparto di neuropsichiatria infantile. Le parole della neuropsichiatra mi risuonano ancora nella testa: “Noi abbiamo in cura ragazze con un BMI molto più basso di quello di sua figlia, lei non è ancora abbastanza grave per essere curata.” Quelle parole mi colpirono come un macigno.

Non ero “abbastanza malata” per meritare aiuto, e questa consapevolezza alimentò ancora di più la voce di Diabla. Mi sentivo invisibile, inascoltata. La mia sofferenza veniva sminuita solo perché non avevo raggiunto il livello “giusto” di anoressia nervosa. Ma un disturbo alimentare non può essere misurato solo dal peso corporeo o dal BMI; è una battaglia che si combatte nella mente, e non serve arrivare a un passo dalla morte per meritarne la considerazione.

Purtroppo, ancora troppo spesso i disturbi alimentari vengono sottovalutati, liquidati come capricci o atteggiamenti volubili. Si dà attenzione soltanto quando il corpo è sull’orlo del collasso, quando è visibilmente distrutto, dimenticando che la tempestività è fondamentale. C’era un senso di ingiustizia che cresceva dentro di me.

Perché dovevo lottare così tanto per ricevere aiuto? Perché una malattia che mi stava uccidendo non veniva considerata con la stessa urgenza di altre? Avevo bisogno di un rifugio, di un luogo sicuro in cui sentirmi compresa, ma tutto quello che trovavo erano porte chiuse e un sistema sanitario impreparato ad affrontare un problema così complesso.

Ho scoperto che anche nei momenti in cui il supporto sembra mancare, ci sono piccoli gesti che possono fare la differenza: una parola di conforto, una mano tesa, la volontà di chi mi amava di non lasciarmi sola, anche quando il sistema lo stava facendo.

Quella guerra non era giusta. Ma ho imparato a combatterla.

Il vuoto incolmabile

L’estate del 2021 segna per me il momento in cui tutto è cambiato. Non è solo il periodo in cui sono stata sopraffatta dall’anoressia nervosa, ma è anche il momento in cui ho dovuto dire addio a due figure fondamentali della mia vita: i miei nonni. Erano più di una semplice presenza: erano il mio rifugio, la mia casa sicura, il luogo in cui mi sentivo vista e amata senza bisogno di dimostrare nulla. Con loro, ogni giorno era un abbraccio che mi avvolgeva, ogni sorriso un rassicurante promemoria che, nonostante tutto, io avevo un posto in questo mondo.

Il vuoto che ha lasciato la loro assenza è stato come una voragine che mi ha risucchiato, togliendomi la forza di continuare. La casa che un tempo era piena di calore è diventata fredda, distante, e io mi sono ritrovata a camminare in un mondo che sembrava non avere più colori, senza più il rifugio che un tempo avevo trovato in loro. La perdita dei miei nonni non è stata solo la fine di un legame, ma l’inizio di una solitudine che non riuscivo a raccontare.

In quel buio, l’anoressia nervosa è diventata una via d’uscita, un modo per controllare qualcosa, per sentirmi potente in un mondo che sembrava essermi sfuggito dalle mani.

Mi sono chiusa, mi sono negata. Negata al cibo, negata a me stessa, negata a chi mi voleva bene. Pensavo che se fossi scomparsa, la sofferenza sarebbe andata via con me. Ma invece, più svanivo, più sentivo che mi stavo dimenticando.

I miei nonni sono sempre stati legati al cibo in un modo speciale, profondo. Non era solo nutrirsi, ma era un atto di amore, di cura. I pranzi con loro non erano mai solo un momento per sfamarsi, ma per condividere, per ridere, per sentirsi a casa. Ogni piatto che preparavano, ogni ricetta, portava con sé un ricordo, una storia, un affetto che si manifestava in ogni morso. La tavola, per me, non era solo un luogo dove mangiare, ma un rifugio dove trovavo conforto, dove ogni preoccupazione sembrava svanire mentre la loro voce mi rassicurava.

Quando i miei nonni sono venuti a mancare nella mia vita, il cibo ha smesso di essere quella carezza che mi avvolgeva, ed è diventato solo una fonte di vuoto. Quel legame che avevo con il cibo, fatto di ricordi, di affetto, di tradizione, è stato spezzato insieme a loro. Nessun altro piatto, nessun altro sorriso, nessuna voce sarebbe riuscita a coprire quel vuoto immenso.

Il cibo, che prima era calore, è diventato un peso che mi schiacciava. L’anoressia nervosa è arrivata come una risposta alla mancanza. Il cibo non era solo una questione fisica, ma emotiva, e senza di loro, senza quella connessione che mi legava a tutto ciò che amavo, il nutrimento diventava sempre più lontano, sempre più difficile da accettare.

Nessuno, e dico nessuno, poteva riempire il posto che i miei nonni avevano lasciato. Non era solo il cibo, ma l’amore che c’era dietro ogni piatto, ogni gesto, ogni parola. Quando li ho persi, ho perso anche una parte di me, una parte che si nutriva di quell’amore semplice e puro che solo loro sapevano dare.

L’amore che cura

Nonostante tutto, c’è stata una presenza che non mi ha mai abbandonata: la mia mamma.

In un momento in cui mi sentivo persa, incapace di vedere una via d’uscita, lei è stata la mia ancora, il mio punto di riferimento. Anche quando il mondo sembrava crollare, quando mi sentivo senza speranza e senza forze, lei è stata lì, a farmi vedere che esisteva ancora una possibilità di salvezza. Mi ha preso per mano, mi ha dato la forza di rialzarmi anche quando pensavo di non potercela fare. È stata paziente, nonostante tutto, nonostante le difficoltà, nonostante io stessa mi fossi allontanata.

Ha visto oltre la malattia, oltre il dolore che mi stava consumando, e ha continuato a credere in me anche quando io non riuscivo più a credere in me stessa. Non ha mai smesso di dirmi che c’era speranza, che avrei potuto guarire, anche quando il cammino sembrava impossibile.

Mi ha sostenuto nei momenti più bui, quando la voce dell’anoressia nervosa era più forte, quando il mio corpo si svuotava e la mia mente era confusa. La sua presenza è stata un faro che mi ha dato luce nei momenti di buio totale. E anche quando non riuscivo a vedere la fine del tunnel, lei c’era, a ricordarmi che la strada, per quanto lunga, avrebbe portato a qualcosa di migliore. È stata l’unica che non mi ha mai giudicata, che non ha mai smesso di amarmi, anche nei momenti in cui non meritavo il suo amore.

E grazie a lei, ho cominciato a capire che non ero sola, che il mio valore non dipendeva da quanto pesavo o da come mi vedevo. Il suo amore, la sua dedizione, sono stati il primo passo per ricostruire quello che la malattia aveva distrutto dentro di me.

Senza di lei, non sarei qui a raccontare la mia storia. La sua forza è diventata la mia, e nonostante tutto, è stata la mia mamma a darmi il coraggio di affrontare la vita, di imparare ad amarmi, e di credere che, un passo alla volta, sarei potuta guarire. Lei voleva vedere “la luce dei miei occhi tornare nei miei occhi”.

Nel 2024, ho incontrato una persona che, senza nemmeno saperlo, è diventata il mio rifugio. È arrivata nella mia vita come una brezza gentile, ma è diventata il vento che mi ha spinto a rinascere. Da subito, l’ho sentita come una Zia, una presenza che non sapevo di aver cercato, ma di cui avevo disperatamente bisogno. In lei ho ritrovato una parte della mia famiglia, un amore puro che pensavo di aver perso per sempre. Con lei, ogni cosa sembrava meno pesante. È stata la prima persona a cui ho dato la possibilità di farmi mangiare qualcosa che non fosse solo un atto meccanico, ma un gesto d’amore. E, cosa incredibile, è stata anche la prima con cui ho mangiato senza paura, senza vergogna. In ogni boccone c’era un pezzo del mio cuore che tornava a battere, un piccolo passo verso una serenità che pensavo irraggiungibile.

È stato il suo modo di dirmi che c’era ancora bellezza, anche nelle cose più semplici. Lei ha riempito il vuoto che avevo dentro. Non solo con il cibo, ma con la sua presenza. Il suo amore, senza condizioni, senza forzature, è stato la cosa più bella che potessi ricevere.

Mi ha insegnato che l’amore non è solo un abbraccio, una parola, ma è anche nelle piccole cose, nei dettagli che fanno la differenza. Il suo amore mi ha fatto capire che non devo essere perfetta per essere amata. E mi ha mostrato che, anche quando la vita mi ha tolto tanto, c’è sempre spazio per ricevere.

Mi ha fatto capire che mangiare non è solo sopravvivere, ma è anche un atto di cura verso se stessi, un modo per dire “Io merito di essere amata”. E più mangiavo con lei, più mi sentivo tornare in vita, come se ogni boccone fosse un passo verso la felicità che pensavo di non meritare.

Lei mi ha dato il permesso di essere fragile, di essere me stessa, e di accettare l’amore come qualcosa di puro, che non ha bisogno di essere guadagnato, ma semplicemente ricevuto. Mi ha fatto capire che l’amore è il nutrimento più grande che possiamo ricevere, e che nessuna fame, nemmeno quella che pensavo insaziabile, è più forte dell’amore che lei mi ha donato.

La fame d’amore dietro l’anoressia nervosa

Ho capito che l’anoressia nervosa non era solo una lotta contro il cibo, ma un conflitto profondo legato all’amore. Un amore che non riuscivo a dare a me stessa, che non riuscivo a sentire nei gesti quotidiani, nei sorrisi, nelle parole. Un amore che sentivo come qualcosa di distante, come se non fosse mai abbastanza.

E nel tentativo di riempire quel vuoto, mi sono rifugiata in un controllo che mi faceva sentire potente, che mi dava l’illusione di poter cambiare qualcosa nella mia vita. Ma, alla fine, ho capito che non era il cibo a farmi male, ma la mancanza di amore che sentivo dentro, quella sensazione di non essere abbastanza, di non meritare di essere amata per quella che ero.

Mi negavo il cibo come se mi stessi negando la possibilità di essere amata.

Ogni piccolo passo verso il controllo mi allontanava dalla persona che avrei voluto essere, e ogni boccone che rifiutavo mi allontanava dall’affetto che avrei dovuto ricevere, prima da me, e poi dagli altri. Il cibo era solo un modo per cercare di gestire quella mancanza di amore. È stato solo quando ho imparato ad accettare che l’amore non ha forme perfette, non ha limiti, non ha condizioni, che ho cominciato a guarire. Ho dovuto imparare ad amare me stessa, e non solo attraverso il corpo, ma attraverso il cuore. Quando ho cominciato a sentire che merito di essere amata per quello che sono, non per quello che faccio o per quello che mangio, ho finalmente cominciato a lasciarmi andare.

Ho capito che l’anoressia nervosa non era solo una battaglia contro il cibo, ma una lotta per riconoscere e accettare l’amore che ho dentro.

E la strada verso la guarigione è stata lunga, ma l’ho percorsa grazie all’amore che, passo dopo passo, ho imparato a darmi, e grazie alle persone che mi hanno dimostrato che l’amore non è una questione di perfezione, ma di accettazione.

L’articolo è stato scritto da Sofia, che ha raccontato la sua storia

Contenuto a cura di Animenta

PASTA DI SEMOLA DI GRANO DURO LUCANO

Rasckatielli

Pasta Secca 500g

Ingredienti: Semola di Grano Duro Lucano del Parco Nazionale del Pollino, Acqua.

Tracce di Glutine.

Valori Nutrizionali

(valori medi per 100g di prodotto)

Valore energetico

306,5 kcal
1302 kj

Proteine

13,00 g

Carboidrati

67,2 g

Grassi

0,5 g

Prodotto e Confezionato da G.F.sas di Focaraccio Giuseppe
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