“Corro in camera, il clima è teso. Ho paura per lei, devo salvarla.
Ansimo, non so cosa fare, mamma e papà urlano, lei piange, devo aiutarla”
Lo ricordo bene quel giorno, avevo circa otto anni, troppo piccolo per capire ma già
sufficientemente grande per poter restare lì, in silenzio, fermo a guardare.
E così, mentre lei si abbandona al racconto del suo vissuto, io mi perdo tra ricordi d’attimi per
troppi anni tenuti nascosti, mascherati dietro falsi sorrisi fatti di dolori e paure, di rabbia e
solitudine, di impotenza e rassegnazione.
Oggi vi voglio raccontare una storia, una storia diversa. La storia di un bambino cresciuto
forse troppo velocemente, la storia di un fratello, di un figlio, di un amico.
La storia di chi ha temuto, ha sofferto, ha pianto, impotente seduto al fianco di una malattia
che negli anni ha visto portarsi via sua sorella, rendendola schiava, vittima di un richiamo
spietato.
L’abbiamo vista insinuarsi tra i corridoi di casa, silenziosa si è fatta spazio tra noi, è entrata
in punta di piedi e come il peggiore dei mali, lento e graduale, ci ha distrutti. L’ha distrutta.
Avevo otto anni la prima volta in cui ho sentito mamma ripetere “Franci, perché non mangi?”.
Da quel momento in famiglia siamo diventati in cinque.
Io, i miei genitori, mia sorella e la sua controfigura, quella che per troppi anni me l’ha portata
via, rendendola schiava di una voce dannata. Di un mostro, come lo chiamavano in famiglia,
malevolo e perverso a cui nessuno era pronto.
Da quel momento qualcosa è cambiato, faticavo a riconoscerla, quella ragazza per me più di
una semplice sorella stava iniziando a scomparire.
Non la riconoscevo, era assente.
Il capo chino, lo sguardo spento, il volto sciupato ed un corpo esile che gridava aiuto.
Lei soffriva, io non capivo. Mi domandavo attonito: “Com’è possibile privarsi dell’istinto più
naturale? In fondo è solo cibo”.
E allora provavo a parlarle, cercavo speranzoso di entrare nel suo dolore, tentativi vani di
sedermi accanto a lei, di stringerle la mano affrontando insieme quel pasto, simbolo di
traumi e dolori ai quali non mi era concesso l’accesso.
I giorni passavano e lei silenziosa e lenta continuava a scomparire.
Trasparente, in volto e nel corpo, si chiudeva in se stessa ed il viso, un tempo angelico,
lasciava spazio ad uno sguardo assente, glaciale, impenetrabile.
Vorrei dimenticarli quegli anni ma non posso, non posso fingere che non sia mai successo,
non riesco a non pensare alle urla, ai pianti, al dolore, a quel cibo nascosto e buttato, alle
bugie, alla paura, alle promesse infrante e ad una famiglia, la nostra, esausta e prosciugata
da un malessere inenarrabile.
Le giornate passavano lente tra i banchi di scuola e a casa non ci volevo tornare, sapevo
cosa mi sarebbe aspettato, sentivo il rimbombo delle urla e quei pianti disperati che mai
riuscirò a dimenticare.
Per troppi anni ho taciuto, rifugiandomi in sorrisi forzati e in racconti di storie fiabesche, in
finzioni teatrali di una felicità apparente.
Vedevo i miei genitori, prosciugati e senza forze, lottare invano e parlare ad una figlia della
quale, oramai, era rimasto solo il ricordo.
Ricordo i pianti di mia mamma e lo sgomento di mio padre.
Ricordo quelle cene, fatte di silenzi e sguardi persi, di occhi stanchi e disperati.
Ricordo il suo volto, scarno e prosciugato, ed il corpo così gracile e leggero si ergeva a
scudo, in una lotta a tre: lei, noi e quella dannata malattia.
L’ho odiata, Francesca. Per anni ho desiderato se ne andasse via, per sempre.
Ero esausto, un senso di solitudine e trascuratezza dipingeva le mie giornate, invisibile agli
occhi di genitori troppo concentrati a proteggere una figlia che vedevano attoniti scomparire
tra le loro mani.
E io? Io no, non potevo parlare, non potevo permettermi di aggiungere altro dolore.
In fondo non stavo così male, in fondo, mi ripetevo, non ero io quello in bilico tra la vita e la
morte.
Allora tacevo, ascoltavo silenzioso i discorsi urlati e i loro pianti trattenuti.
Guardavo inerme le lacrime bagnare il volto di mia sorella e mi sentivo in colpa desiderando
di non veder più quel corpo malato aggirarsi tra i corridoi di casa.
Mi sentivo in colpa ma in fondo, io, volevo solo tornare a respirare.
La sera mi chiudevo in camera e solo con i miei pensieri, mi lasciavo cullare dalle note della
musica, il mio rifugio, il mio solo conforto.
Nel buio della notte, cupa e silenziosa, mi lasciavo andare preda di emozioni profonde, di
paure e sconforti, di timori e rabbie con le quali dovevo far i conti. E allora timido mi
concedevo un pianto soffocato, la testa urlava mentre io cercavo invano di nascondere il
dolore di chi sta assistendo impotente allo spettacolo più macabro.
Ero piccolo e forse lo sono ancora oggi, ma quella malattia, compagna fedele delle nostre
giornate, mi ha cambiato.
Francesca lo dice sempre: “Ringrazio l’anoressia e la ringrazierò per tutta la vita”.
Faticavo a comprendere le sue parole, così strane e assurde.
Come si può ringraziare chi lentamente ti ha trascinata nel baratro? Com’è possibile render
grazie a chi ti ha distrutto? Come può il dolore più profondo trasformarsi in gratitudine?
Forse ancora non lo comprendo e forse non lo capirò mai, ma oggi so per certo che quella
malattia, assidua compagna delle nostre giornate, mi ha permesso di crescere
consegnandomi uno sguardo diverso, una sensibilità al mondo ed un’empatia rara per un
ragazzo della mia età.
Sono cresciuto velocemente, troppo velocemente, facendomi carico di responsabilità e di
dolori ai quali non ero preparato.
Mi sono sentito uomo prima di essere fratello e figlio, il senso del dovere e la paura di fallire.
il timore folle che Francesca se ne andasse, per sempre.
La lotta costante per restarle accanto, le mani tese in segno d’aiuto ed il rifiuto che ogni volta
ricevevo.
È stato difficile, anni complessi gremiti di emozioni forti e sentimenti contrastanti.
Anni di battaglie perse e speranze vane. Anni di false illusioni, di vittorie e sconfitte.
Tenebre profonde hanno invaso la nostra vita ed una casa un tempo lieta si è trasformata in
inferno e una sorella, un tempo complice e premurosa, scomparsa, vittima innocente di una
malattia diabolica.
Un anno fa Francesca è stata ricoverata. Quel giorno ho gioito, forse l’inferno stava per
finire.
Nessuna sapeva, da quel momento, cosa sarebbe successo. Nessuno forse ci credeva
veramente, non era solo l’ennesimo tentativo vano di rianimare un’anima sopita?
“E’ l’ultima possibilità, o la va o la spacca, ce la deve fare. Può guarire.”
In quei mesi ho riscoperto la bellezza di essere figlio, il privilegio di essere visto ed ascoltato,
libero da quel fardello che per troppi anni ha assunto il ruolo di protagonista.
Mi sentivo in colpa, sporco al pensiero di gioire nel saperla lontana da casa.
La sentivamo la sera, una videochiamata dopo cena. Era raggiante e noi, quel sorriso, non lo
ricordavamo da tempo.
Ma qualcosa ci sfuggiva, non riuscivamo a spiegarci come fosse possibile essere così felici,
chiusi, tra i muri di un ospedale. Temevamo mentisse, fingesse sorrisi solo per farci stare
tranquilli.
Ma lei no, lei ci credeva davvero.
È stata forte mia sorella, l’unica a sperarci fino in fondo, l’unica a lottare contro il pregiudizio
e lo sconforto di chi in cuor suo sapeva che anche questa volta non ce l’avrebbe fatta.
Invece no, questa volta sarebbe stato diverso, questa volta ce l’avrebbe fatta davvero.
Non mi spiego cosa sia successo, in quei mesi, lontana da casa.
Non so cosa sia cambiato, non so quali fatiche e dolori abbia dovuto affrontare.
Non so quanti pianti, paure, ostacoli e timori abbia avuto il coraggio di superare.
Ma so che ora è trascorso un anno dal suo ricovero e quella ragazza, tanto fragile e malata,
è tornata a vivere.
E casa nostra, un tempo impregnata da un tetro grigiore, ha ripreso a tingersi di mille colori.
Ed il suo volto, così sciupato e stanco, ora risplende.
A ripensarci sembra incredibile, un viaggio travolgente ha stravolto gli equilibri di una
famiglia segnata da un dolore profondo.
Nei mesi abbiamo visto Francesca rinascere, giorno per giorno e mai come oggi così
splendente.
Gli occhi le brillano ed un sorriso sincero illumina il suo viso e quella ragazza, tanto fragile e
insicura, è ora una donna consapevole e risolta.
Finalmente Francesca ha trovato pace, mettendo a tacere quelle grida infernali che per
troppi anni me l’hanno portata via.
Anime affini, le nostre, mai come ora così legate.
Oggi, quando apparecchio la tavola, sono felice.
Oggi posso portare solo quattro piatti perché lì, seduta al mio fianco, c’è solo Francesca e
quella sua controfigura è oramai un lontano ricordo.
Articolo a cura di Francesca Finazzi