La paura del recovery: la riflessione di Ilaria tra società e DCA

la paura del recovery: la riflessione di Ilaria tra società e DCA

Nel seguente articolo cercheremo di approfondire la relazione che esiste tra la società in cui viviamo e l’insorgenza di un disturbo alimentare. Cercando di analizzare questo possibile collegamento scopriremo poi in che cosa consiste la “paura del recovery” da un DCA.

Uno sguardo alla nostra società

La società che ci circonda, lo stile di vita, il mondo del lavoro e le regole non scritte che tutti noi seguiamo possono provocare forti disagi all’interno della nostra persona.

Tutto questo può essere un punto a favore nello sviluppo di un disturbo alimentare (DCA) o di qualsiasi patologia legata alla salute mentale. Ma in che modo?

Frenesia, ambizione e stress sono i punti cardine per il funzionamento della società attuale. Nel mondo di oggi una persona viene valutata in base a quello che può raggiungere e a quello che raggiunge. Se ti iscrivi all’università vali qualcosa, se sei un’atleta che raggiunge alte prestazioni vali qualcosa, se fai carriera vali qualcosa. Il nostro valore viene determinato dalle nostre azioni, da quanto siamo bravi nel fare quello che facciamo. Il pensiero sociale che ci opprime costantemente e quotidianamente potrebbe essere difficile da gestire, soprattutto per i giovani.

“I giovani non hanno voglia di fare niente”, “I giovani di oggi sono viziati e pigri”, “Io alla tua età lavoravo già da 10 anni”, “Voi giovani non sapete cos’è la fatica”, “I giovani sono superficiali, pensano solo a divertirsi”, “I giovani non si pongono obiettivi”, “I giovani non portano rispetto”… Queste sono tutte frasi che si sentono in continuazione, che sminuiscono i giovani, che generalizzano l’ideale giovanile che le altre generazioni hanno di noi.

Ma oltre all’opinione pubblica e al dito puntato contro i giovani c’è di più.

La pressione imposta dalla società è deleteria per chiunque. Il mondo cambia e si evolve costantemente ma le credenze non si sviluppano altrettanto velocemente.

La pressione sociale come ostacolo ai giovani

Il pensiero che accomuna la maggioranza dei giovani è decisamente quello di voler essere qualcuno in questo mondo. Di dover essere qualcuno, per meglio dire.

In questo modo l’unica cosa che conta è il successo, il raggiungimento di una buona posizione lavorativa. Non ci possiamo permettere di fallire: il fallimento non è assolutamente contemplato. Se fallisci, sei fuori. Il meccanismo che fa funzionare la società è basato sulla vittoria. Più vai avanti, più vali, più sei degno, più meriti qualcosa. Il meccanismo di oggi dice che la felicità si raggiunge quando si raggiunge quel qualcosa che viene imposto dall’esterno. La felicità è avere un lavoro, guadagnare bene, avere il potere, essere qualcuno.

E questo è quello che abbiamo imparato dai nostri genitori, dai nostri nonni. Persone che hanno vissuto in un’epoca diversa dalla nostra: ma, nonostante questo, il prototipo non è cambiato. E questo provoca un disagio dentro di noi.

La mentalità di molti giovani è diversa da quella dei nostri genitori ma non possiamo assecondarla perché non è ancora ritenuta valida all’interno di un mondo comandato dai più grandi. Non possiamo permetterci di assecondare i nostri bisogni, le nostre esigenze, le nostre idee. Non possiamo permetterci di essere deboli, di soffrire, di chiedere aiuto. E allora ecco che ci ritroviamo inseriti in un mondo di burattini comandati dai piani alti, comandati dalle aspettative, comandati dal trionfo.

Se cresciamo in una società che premia solo i risultati, e solo di un certo tipo, allora non conosceremo mai una realtà diversa da questa. Non ci resta che affidare il nostro valore al raggiungimento di qualcosa. Se non sono brav*, non sono degn*, non merito niente, sono un fallimento. 

La colpa non è di nessuno, non è dei nostri genitori o dei nostri nonni, non è di chi non si occupa dei giovani, non è di chi non vuole investire soldi per il nostro (e proprio) futuro. Ma è la cultura, quella che abbiamo sempre visto nei film, quella che abbiamo sempre visto nel nostro contorno. E questa pressione, queste aspettative, questo schema montato e tramandato come una legge a cui ognuno di noi deve obbedire crea forti disagi e grandi paure nelle generazioni che vivono in questa epoca di transizione.

L’insicurezza giovanile come spinta per i DCA

Questo mondo forse non fa per noi. I giovani sono una grande risorsa e ancora più preziosa è la nostra sensibilità, che deve essere soffocata (quasi sempre) quando entriamo nel mondo dei grandi.

E cosa può succedere in un mondo che funziona solo con una tipologia di batterie?

Può succedere che i giovani non si riescano ad adattare, ma anzi si sentano fortemente fuori posto, sbagliati, inutili, illusi e falliti. Tutto questo è un cerchio chiuso pieno di emozioni e sentimenti che fanno emergere l’insicurezza e la debolezza, che ancora una volta non sono ammessi, non sono conosciuti e non sono accettati.

Se una volta la salute mentale non era minimamente calcolata, credo fortemente, che al giorno d’oggi, sia il punto di partenza per poter fare la vita che ognuno di noi decide di fare. Perché se la nostra mente non ci mente e non ci inganna, saremo felici qualsiasi sia la strada che decideremo di seguire. Tutto questo senso di inadeguatezza, di timore di fallire e di non diventare qualcuno può scatenare dentro di noi forti disagi. Di conseguenza, un modo per poter colmare questo sentimento è la ricerca del controllo, di un qualcosa che possiamo controllare.

E se riesco a controllare ciò che introduco nel mio corpo e la sua forma allora sono forte, sono all’altezza, sono potente. Se il mondo in cui vivo non mi dà quello che cerco e quello di cui ho bisogno, il comportamento di fuga da questo ingranaggio viaggia sugli stessi binari di quell’unica cosa che mi può dare quello di cui ho bisogno.

Forse allora la via più semplice è conoscere un disturbo alimentare, per colmare il vuoto che la società ci lascia dentro.

Il circolo vizioso: tra DCA e paura del recovery

E da qui inizia il circolo vizioso. Da qui, molte volte, nasce la paura del recovery. Perché il disturbo alimentare, in qualsiasi sua forma, protegge chi ne soffre. Il disturbo alimentare permette di non affrontare la vita, perché non si hanno le forze per farlo. Il disturbo alimentare ci ha fatto conoscere persone (i medici) che non giudicano, che ci accettano per quello che siamo, che ci vogliono bene, che non si aspettano niente da noi. E se loro sono diventati dei punti fondamentali la paura di perderli diventa forse a volte più forte del bisogno di guarire. Anche perché, sempre secondo il ragionamento di una persona che soffre di questi disturbi, il disturbo alimentare dà un’identità. “Io sono il mio disturbo alimentare, io non mi conosco senza disturbo alimentare, io mi sono pers*, ma il disturbo alimentare mi permette di riconoscermi in qualcosa”

E la paura di affrontare la vita diventa troppo più forte della voglia di viverla. Il disturbo alimentare protegge da tutte quelle sensazioni ed emozioni che sicuramente là fuori causeranno un forte dolore. Il DCA, che nasconde tutte le paure ed insicurezze, ci sta proteggendo da queste. E anche se mi sento un puzzle a pezzi, tutto di un unico colore, ricomporlo è più difficile che lasciarlo disfatto. Il disturbo alimentare comanda e convince che quello che pensiamo sia la realtà. E vedendo la vita delle altre persone, il senso di inadeguatezza e la paura di fallire si fanno ancora più forti. Quindi, ancora una volta rifugiarsi nel disturbo alimentare è l’unica maniera che conosciamo per non provare le emozioni che non siamo pronti a provare.

La paura del recovery rispecchia la paura di ritrovarsi spaesati una volta guariti. La paura del recovery esiste: è difficile da spiegare, ma esiste.

Ma la vocina nella nostra testa non sempre ci indica la strada migliore per noi.

Il recovery è la strada migliore per noi. Non c’è un tempo limite, non c’è un tempo minimo o massimo. Non c’è un tempo. Il percorso di recovery non si basa sul tempo. Ognuno di noi ha bisogno di qualcosa di diverso, ognuno di noi ha bisogno di poter conoscere la propria anima.

Il percorso di recovery è duro, faticoso, estenuante. Ma è bellissimo. E, soprattutto, è possibile.

L’articolo è stato scritto da Ilaria, volontaria dell’Associazione

Contenuto a cura di Animenta

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